Le Presidentesse
di Werner Schwab

con
Ennrico Caravita
Ciro Masella
Marco Sanna

regia
Eugenio Sideri

Produzione Lady Godiva Teatro, Tra cielo e terra Festival, Meridiano Zero.

Parole.Parole. Parole.
Un vortice le prende, le incatena, ne costruisce storie di grande umanità e le distrugge, annientando sogni, speranze, illusioni.
Che resta?
Il miracolo, lindo casto e puro. Il miracolo dell´oro e della merda. E un odore, nell´aria, di sangue umano.
Tutto il resto va a farsi fottere.
Scendono nell´arena i gladiatori. Si mostrano nelle loro fattezze: uomini che non sanno più combattere, ma che si ritrovano, a mò di condanna, a doverlo fare e rifare, ogni giorno, ogni sera.
Sono tre attori, costretti in sontuosi abiti elisabettiani, a scendere nell´arena per lo scontro. Chiusi in pesanti gabbie metalliche, trascorrono la via crucis che li separa al termine della messinscena raccontando le vicende di tre anziane signore.
Recitano a fare le signore, a immedesimarsi nei loro drammi quotidiani e nei loro piccoli sogni. Una richiesta di esistenza, un briciolo di luce e felicità dentro a storie di vite annientate dalla tristezza del quotidiano e dalle brutture dell´ipocrisia. Tre uomini a contendersi tre donne, persone e personaggi a rincorrersi accompagnati da un karaoke da pianobar.
Su quelle note, squilli di tromba, l´arena si apre e dalle gabbie escono le dame. Comincia lo scontro.
Parole. Parole. Parole.
Dal basso.

E´ un dramma che parte dal basso, da quello strato di quotidianità che è squallore, mediocrità , ipocrisia. Su questo livello si pongono Erna, Grete e Maria, le protagoniste della vicenda. I loro racconti scivolano su questo piano, invischiandosi vertiginosamente fino a sollevarsi in drammi più tremendi e sanguinari. E´ come se le loro parole, lentamente, levitassero dalla melma ma si trascinassero i filamenti della melma stessa. Quella sollevazione, quel tentativo di fuggire o almeno allontanarsi dalla terra-palude, è rappresentata dai loro sogni.

Saranno però gli stessi sogni, dopo essere stati dettagliatamente descritti, a ricordarsi di quei filamenti, di quello strascico melmoso che li continua a tenere inchiodati alla palude.
E i sogni stessi ripiomberanno ferocemente a terra, catapultati nuovamente nel quotidiano.
Regine reiette, dame senza regno, signore svuotate, le tre protagoniste investono i racconti delle loro vite reiette, senza regno, svuotate…lasciandoci alla fine una recita da rifare ogni sera.
Dalle gabbie aperte nell´arena-palcoscenico fuggiranno i corpi degli attori, resterà il karaoke-pianobar e gli involucri dell’esistenza delle tre signore: i loro bellissimi abiti elisabettiani, i loro bellissimi costumi da
presidentesse.
Da indossare, la sera successiva, a condanna della vita.

Eugenio Sideri

” Le presidentesse” è un progetto coltivato e portato avanti con grandi sacrifici e amore. E´ un progetto nato dall´incontro di persone che , pur mantenendo le proprie autonome progettualità artistiche, hanno deciso di condividere un percorso con decisione e forza. Un percorso di confronto e crescita, di messa in discussione e di necessità profonda.
“Le presidentesse” non ha lucrosi finanziamenti, non ha vantaggiose produzioni: c´è una necessità sanguigna ed epidermica di far esistere questo testo nella sua attualissima e ferocissima critica sociale. Un sasso nello stagno, forse, ma anche un profondo bisogno di lanciare quel sasso, con tutte le proprie
forze.
Per sentire ancora una volta quella vita vera che passa nel fare il teatro.
Tutto il resto è spettacolo.

 

Produzione Meridiano Zero
In collaborazione con Armunia festival costa degli etruschi
Ideazione e regia Marco Sanna
Con: Marco Boscani, Alessandro Doro, Luana Mulas, Marco Sanna, Nadia Scanu, Francesca Ventriglia. Tecnico luci e audio: Massimo Casada.

Il progetto si sviluppa e centra la sua attenzione su alcune situazioni di un rapporto di coppia spinto alle estreme conseguenze.
Una riflessione sul significato di tragedia quotidiana, in tutti i suoi aspetti macro e microscopici, dalle grandi tragedie umane alle piccole tragedie quotidiane tra le quattro mura domestiche, filtrando tutto attraverso i dialoghi e i rapporti dell’uomo comune.

Macbeth è un pretesto per parlare dell’orrore, partendo dalle relazioni intrinseche a un nucleo sociale ridotto ai minimi termini: la coppia. Un incedere di amore, morte e apatia quotidiana che disegna due personaggi chiave della tragedia Shakespeariana.
La coppia come inizio e fine di tutto, luogo dell’umano da cui tutto ha origine e in cui tutto torna a morire, per abitudine, a volte per disprezzo.
Quante volte abbiamo aperto la porta, per mostrare l’interno, l’interno personale, costruito con pazienza, arredato con cura e sacrificio (così è la casa del padre e della madre). Quante volte questo interno è stato devastato, dopo un primo attimo di sincera meraviglia, solo per il gusto di farlo combaciare a un altro già conosciuto, dunque più sicuro.

Noi come camere ammobiliate, noi come case date in affitto, noi che rinunciamo al nostro futuro astratto per tuffarci in uno concreto, dove sappiamo con chi condividere i passi per le strade semideserte, i percorsi che erano fino ad allora solitari e pensierosi, la prima visione del mattino, l’ultima della sera.
Noi che non siamo più invitati o ospiti, non più uno che va e l’altro che aspetta, ma entrambi senza possibilità di scelta, dentro una casa che non apparteneva a nessuno e che adesso è di tutti e due, con un cuscino in comune per il quale litighiamo e dal quale, come malati ormai al termine della speranza, finiamo per avere una visione del mondo.
La solitudine di essere in due, molto peggio che soli, la solitudine intrinseca al sentimento nella sua inesplicabilità.

Cosa significa e quanto conta il «mistero» di due persone una di fronte all’altra, e quando questo smette di essere, cosa rimane al suo posto?
Un abisso di silenzio, sul fondo del quale s’insinua la convinzione o la superstizione che non esiste ciò che non si dice. Ed è vero che solo ciò che non si dice e non si esprime non può essere tradotto.
Silenzi da cui non s’impara nulla, silenzi privi di concentrazione, dove la mente è impegnata con le note di una canzone stupida sentita alla radio.

La casa è il luogo dove le cose si celano, gli affetti si fanno e si disfano. La casa si dice che abbia memoria, e la casa ci racconta. Racconta noi, le nostre abitudini, parlando attraverso i nostri odori, la disposizione degli oggetti, certi angoli di dimenticanza sfuggiti al vortice delle pulizie settimanali. E a noi racconta, la casa, con i suoi strati di pittura alle pareti, a noi che varchiamo la soglia e ci aggiriamo nelle stanze, pubblico indeciso se prendere o non prendere in affitto al costo di un biglietto, almeno per una sera, questi sentimenti così vicini eppure così spesso celati.

Quattro pareti dunque, la quarta abbattuta, in senso architettonico, reale, spaccati di vita, come in certi palazzi a Sarajevo, li abbiamo visti alla televisione.
Abitiamo questa casa, uno dopo l’altro, Macbeth, primo proprietario, ci contiene e ci conosce, come gli antichi contengono i contemporanei, come il teatro contiene la vita.

Pura finzione. Come tutto.

 

meridiano zero passione

 

meridiano zero passione 01

Produzione Meridiano Zero
In collaborazione con: La Luna Antica e Link – Theatre en vol

Regia: Marco Sanna.

Con: Gian Giorgio Cadoni, Sarah Canu, Luigi Manca, Luana Mulas, Marco Sanna, Franca Spanu.

Luci: Massimo Casada.

Le situazioni in cui non vorremmo mai trovarci, le indecisioni che lasciano passare la vita dietro i vetri, il dolore che pare sempre degli altri, oppure così nostro da chiudere la porta in faccia a tutti, gli sbagli commessi, quelli da compiere, bere con gli amici,fumare, attendere…tutto.
Ogni volta che nasce uno spettacolo, nasce qualcosa di te che non conoscevi, o che avevi dimenticato in qualche angolo. Si, ogni cosa è dentro di noi, non c’è da sorprendersi nel scoprirsi assassini, guardoni, cinici, innamorati, stupidi, bisognosi d’affetto…tutto.

Le notti si susseguono, e ogni notte una goccia scava un po’ la pietra del viso, apre una ruga nuova come una riga aggiunta al testo, un riflesso nuovo nello specchio; anche questo è il senso del teatro: testimoniare il proprio tempo, i giorni che passano, i nostri giorni.
Ogni linguaggio è lecito, ogni fine raggiungibile, ogni strada percorribile, ogni storia è la nostra storia, e da questa disponibilità a farsi attraversare, a farsi tramite, nasce la poesia, piccola o grande non importa.

La poesia è tutto, la poesia non so a cosa serve ma so che è importante.
Questo lavoro, narra attraverso quadri diversi, storie unite da fili sottilissimi e misteriosi, narra dello scarto tra il pensiero e l’azione, di repentini cambi di direzione e di umore, di esistenze sull’orlo, in bilico fra un futuro astratto e uno concreto nel quale sono impigliate.
Narra la prima notte di nozze, da dove simbolicamente ha inizio l’ansia di un’umanità non ancora venuta al mondo, figlia di genitori che si scoprono troppo in confidenza e quindi per assurdo sconosciuti l’uno all’altra.

Narra di raptus improvvisi, omicidi compiuti per pura fatalità, altri premeditati per amore, persone in punta dei piedi leggere più dell’aria che le contiene, convulse in rapporto a ciò che le circonda: affetti, parole, suppellettili…tutto.
E’ l’ultima notte dell’anno, vento sulle finestre, neve fuori dalla porta, è come se tutti abbiano sentore che la loro vita cambierà presto. Tutti sono riuniti insieme sotto lo stesso tetto, ma nessuno sa ciò che succede nella stanza a fianco, il suono della musica copre ogni cosa, il conto alla rovescia parte e si ferma a uno, lo zero non arriva mai, la festa non può scoppiare.

La violenza, al centro di vicende surreali e tragicomiche è quella delle emozioni, i personaggi, cercano una salvezza per l’anima e trovano però il degrado dei corpi.
Riflette, questo lavoro, uno stato d’attesa perenne, vive di ripetizioni, di moduli ridondanti. Nella fase di ricerca in cui ancora si trova, ripetersi è lecito, per poter creare un universo poetico sconosciuto, che sia frutto dell’incontro fra il cuore e la bellezza di chi vi prende parte.
Ripetersi è lecito poiché non sempre ci si capisce subito, spesso bisogna appunto avere la pazienza di ripetere e la pazienza di riascoltare.

Questo lavoro è dedicato a Raymond Carver, Sarah Kane, Werner Schwab, a tutti quelli che hanno preso decisioni vitali nell’arco di una frazione di secondo, a quelli che si sono giocati la vita e il cervello nell’eccesso: d’amore, d’attenzione, di sagacia, di veggenza…di tutto.
Questi frammenti, tutti insieme, formano un intero che è frammento esso stesso di ciò che ci gira per la testa, di ciò che avremmo voluto fare e non abbiamo avuto il tempo di fare. Stasera ve le regaliamo queste esistenze da quattro soldi, domani se volete possiamo trovarci e scoprire quella ruga in più spuntata fuori stanotte.

 

 

 

Produzione Meridiano Zero – Mutamento Zona Castalia

di e con Marco Sanna e Francesca Ventriglia

 

Per tentare di capire:
il desiderio prima di ogni altra cosa.

Il desiderio ha trascinato con se l’amore, una coppia, una coppia d’amore, la stanza, dove vivono tutte le coppie, luoghi senza pericolo di bellezza, luoghi dove tutto succede, questo succede.

Per tentare di mettere in pratica:
ci siamo costruiti un recinto di pensiero.

Pensare l’amore in simbiosi con l’ossessione. Pensare soltanto l’amore, ossessivamente. Volere una persona soltanto, una persona alla volta. Desiderare certe cose, quella cosa, soltanto. Vivere un presente ossessivo. Attendere un futuro migliore, dove tutto ritornerà come prima. Riprovarci ancora. Guardare al passato e ogni cosa perduta, vederla prima dell’inizio di tutto.
Un recinto d’ossessione, nella stanza si sta, vivi o morti. Cessa di esistere il tempo, le cose ritornano, se ne vanno, essi, semplicemente, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.
Un intatto presente, un fossato di silenzio che circonda la casa.

Il disperato (amorevole dunque) tentativo di comprensione, di ricerca delle ragioni, di avvicinamento l’uno al mistero dell’altro, che è anche un tentativo per dimenticar se stessi, e infine il complesso non capire……come un corridoio stretto e lungo, senza lucernari, senza porte, che non conduce in alcun luogo.
E ad un tratto tutto si rivela,con la forza dirompente di un esplosione, con l’ineluttabilità di una catastrofe: la tragedia arriva nella nostra (nella loro) vita per dargli un senso.

Nel tentativo di cambiare prospettiva:
Il sogno diviene incubo di normalità.

Quando ci destiamo da questo brutto sogno, brutto e pauroso, reso accettabile solo dall’eco di canzoni d’amore , rumori di tristezza, non ci siamo più: tutte le nostre stanze parlano della nostra partenza.
Quando le cose finiscono, è qui, non un attimo prima, che la tragedia s’impone su tutto, non c’è più spazio per nessun’ossessione, quando si muore, quando muoiono gli altri, quando ci si accorge di essere morti (già), si vorrebbe che partisse una canzone (la nostra) ad abbracciare la potenza del dolore.
Il senso di perdita porta in se, come dono, un’assassina lucidità, una coperta da gettare sul nulla per provare a dargli una forma.
Ma se ogni giorno guardassimo nello specchio la morte all’opera, allora ci si potrebbe fare l’abitudine, si potrebbe perfino annoiarsi davanti ad essa e cullare il nostro suicidio come un bimbo, aspettando il giorno in cui verrà natale e dare una festa privata in cucina, senza invitati se non la nostra stessa ombra. Si potrebbe ballare al ritmo del nostro sistema nervoso. Così belli, finalmente,così umani: solo piscio, merda, puzza e voglia di andarsene via.
Ma non si va, si resta.
Nel fondo della caverna di Platone dove le cose non si svelano mai per quello che sono, la realtà è continuamente negata o travisata e non è possibile vedere se non l’ombra del reale, che è nel fondo della nostra mente e si estende, vaga e indefinibile: una minaccia per la pace, tutta la pace.
Tutto sembra soccombere, tutto ruota intorno alla fine di ogni possibile percorso, ma ci faremo forieri a nostro modo di speranza: come? Rifiutandoci di chiudere il conflitto con un opportuno finale, felice o infelice.