“… poi in certi pomeriggi mi guardavo recitare, in una scena stanca, in una scena vuota. La cera colava e il cuore piangeva, la cera colava e il cuore piangeva…”
F. Fiumani “avevo tutto”
Tre riflessioni che affrontano ognuna una diversa tragedia shakespeariana. Macbeth, Amleto, Otello, per molti sono oramai grandi titoli da cartellone senza più alcun legame con l’esistenza reale. Allora noi che ne tentiamo ancora una valorizzazione forzata e compiaciuta, non siamo altro che grottesche e mostruose caricature?
Non c’è il tentativo di parlare a qualcuno, le parole cadono semplicemente al suolo ancor prima di superare la ribalta. Quel qualcuno dedito all’ascolto semplicemente non c’è più o non ascolta. Shakespeare sapeva per chi scriveva, ne conosceva i gusti, i difetti, condivideva sogni e incubi, noi no, non lo sappiamo più.
La necessità di queste tre riflessioni rifiuta di sacrificarsi sull’altare della speranza di notorietà, ma preferisce perdere nel buio coordinate e direzioni. Non cerca consenso attraverso una messinscena, ma canta lo spaesamento, il senso di esclusione, di squilibrio che sono le uniche emozioni che sentiamo di poter condividere, noi che agiamo, con voi che guardate.
Sulla scena opere altissime di cui rimangono solo gli avanzi.
Macbeth e Lady Macbeth ormai vecchi e rintontiti che intrecciano il loro quotidiano fatto di ricordi e cruciverba con il loro passato di assassini, non più in grado di distinguere fra i fatti a loro accaduti, le notizie di cronaca nera, e la pura fantasia.
Amleto, un altro Amleto, uno di meno, come se esistesse un numero finito di possibilità d’interpretazione. Amleto che spera si arrivi un giorno alla fine, al punto in cui non rivivrà più, perché troppo stanco di essere incarnato, distorto, esaltato, smembrato. Questo Amleto inizia dalla fine, dando per scontati gli avvenimenti che tanto sono sulla bocca di tutti, la storia che è poco più di una chiacchiera, i personaggi che semplicemente non si presentano in scena.
Otello e Desdemona sono due artisti mediocri, senza fantasia e senza talento ma con un desiderio disperato di ambedue le cose. Sono a Cipro e non succede nulla. Lontani quei tempi in cui i Turchi assediavano le coste, non è rimasto nulla solo la noia di chi sa di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Cipro come metafora dell’agognato luogo di residenza, in cui passare un breve periodo di “studio” e concentrazione, una scelta quasi obbligata a cui l’artista contemporaneo è costretto nella giungla di bandi, residenze, call, casting, giri a vuoto e promesse mancate.
SPETTACOLO-CONCERTO DI CLAUDIA CRABUZZA E FRANCESCA VENTRIGLIA
CLAUDIA CRABUZZAvoce e guitalele FRANCESCA VENTRIGLIAinterprete e voce narrante
Testi di Violeta Parra e Nicanor Parra
Adattamenti canzoni Claudia Crabuzza
Traduzione poema Defensa de Violeta Milton Fernández
Produzione Meridiano Zero
Le più intense canzoni di Violeta prendono vita in un delicato spettacolo-concerto dedicato all’artista cilena, svelandosi grazie a nuovi adattamenti in italiano curati da Claudia Crabuzza che canta accompagnata dal guitalele, e alle performance di Francesca Ventriglia, che dà corpo alle visioni di una autrice e donna unica, madre di tutta la canzone latino americana.
Spinta dalla passione e dalla ricerca di autenticità, Violeta ha percorso l’intero Cile dissotterrando ritmi e temi della canzone popolare, ricostruendo una tradizione che si stava perdendo. Violeta ha vissuto con passione e con dolore. I suoi testi parlano della vita, dell’amore, della gioia, dell’ingiustizia e dei dimenticati, sono testi bellissimi e strazianti, che, escludendo la famosa Grazie alla vita interpretata da Gabriella Ferri, in Italia non avevano ancora avuto traduzione.
A fare da filo conduttore tra le canzoni e le rivendicazioni di Violeta, le parole della poesia di suo fratello, il grande poeta cileno Nicanor Parra, che scrisse Defensa de Violeta prima come elogio del suo infaticabile e non abbastanza riconosciuto lavoro di ricerca e di amore per il Cile, e poi come elegia in seguito alla morte tragica avvenuta a cinquant’anni nel 1967, quando aggiunse a quelle precedenti numerose altre strofe. La versione presentata nello spettacolo è del poeta e traduttore Milton Fernández.
In Difesa di Violeta, la Parra rivive con la sua rabbia e con la sua ironia, lo sguardo tagliente che ha condannato il potere e la Chiesa, che ha difeso chi non ha niente, dandogli per la prima volta voce nella Storia.
Claudia Crabuzza è di Alghero, ha viaggiato per un po’ tra Europa e Messico. Nel 2000 fonda i Chichimeca con Fabio Manconi e Andrea Lubino con cui ha pubblicato tre album per l’etichetta indipendente Tajrà. Ha collaborato come interprete e autrice con artisti come Tazenda, Pippo Pollina, Mirco Menna, Il Parto delle nuvole pesanti, Dr Boost e con la band messicana La Carlota. Com un soldat, il primo disco solista in catalano di Alghero, ha guadagnato la Targa Tenco 2016 per la miglior opera in dialetto e lingue minoritarie.
Francesca Ventriglia nasce a Foggia e si forma sin da bambina nella danza. Prosegue il suo percorso artistico diplomandosi all’accademia di belle arti di Bari e realizzando diverse mostre soprattutto in Puglia. Si dedica al teatro professionalmente dal 1999. Per diversi anni collabora con il Teatro di Buti con la direzione di Dario Marconcini, lavorando in diverse produzioni. Ha collaborato con Sardegna Teatro e lavora stabilmente con la compagnia Meridiano Zero come attrice protagonista e coautrice di tutte le produzioni.
Tendere alla perfezione, equivale a non perfezionarsi mai. È la messa in scena di una disarmonia che rende l’arte eterna.
Iago
Siamo dei grossi bambini. Ma allora, quale regno ci resta?Il Teatro! Reciteremo per rifletterci nella finzione e lentamente ci vedremo, grosso narciso nero, sparire nelle sue acque.
Jean Genet, I negri
di e con: Marco Sanna Francesca Ventriglia
Luci e Suoni: Massimo Casada
Ultimo capitolo per B-tragedies trilogia shakespeariana trash, che questa volta si confronta con Otello. La formula, come nei due precedenti capitoli che hanno affrontato Macbeth e Amleto, è quella di far reagire fra loro il linguaggio alto di Shakespeare con forme espressive molto più basse, i dialetti, il karaoke, il voyeurismo tipico di certa stampa scandalistica, le barzellette. Il tutto per inseguire la deriva del concetto di popolare. Cosa è popolare? Come si fa ad essere popolari? Si può essere popolari?
Quello che vedrete è ciò che succede quando si tenta di fare reagire Shakespeare con i dialetti, con il karaoke, con la stampa scandalistica, con le barzellette sporche, con le parolacce, con le squallide battute, con la volgarità di ogni giorno, con i soldi, con il gratta e vinci, con la tivù, con le merendine e con i villaggi turistici, con Maria Nazionale e con i selfie, con gli strass e le paillettes, con i cocktail colorati, con i balli di gruppo, con la tristezza della volgarità, con la volgare tristezza.
Questo è un omaggio alla spazzatura di ogni giorno, alla bassa fedeltà, alla confusione nella quale viviamo, al tradimento di ogni tradizione tradita e subita, al tradimento di ogni umana speranza, alla stupidità di ogni gesto ogni parola ogni movimento a cui non saremo mai abituati.
Siamo quello che siamo. Se facciamo male le cose, le facciamo però a modo nostro. Quelli che le fanno bene le fanno tutti allo stesso modo.
La nostra stupidità è l’antidoto scenico contro la falsa cultura.
Ci siamo appropriati del sacrosanto diritto di essere stupidi infinitamente stupidi, abbiamo calpestato i pregiudizi (i nostri tutti), il cattolico decoro, il bel teatro, il buon teatro, quello con la trama narrativa, quello dei testi sacri, quello che accusa un vuoto di contenuti negli altri, sempre negli altri, quello che non si guarda allo specchio, incapace di vedere le proprie rughe.
Non lo faremo mai questo Otello, mai! a noi L’Otello non piace, noi l’Otello non lo capiamo. Desdemona è una cosa inutile e Otello un immigrato clandestino con quella maledetta tragedia e quella sfiga stampata in faccia, che rende difficile guardarlo fisso negli occhi.
Noi siamo due professionisti dell’intrattenimento estivo come pochi, non ci abbasseremo mai a fare una tragedia dove muoiono tutti….la gente vuole ridere e noi li faremo ridere.
Siamo a Cipro e non succede nulla, la stagione è finita prima ancora che arrivassimo qui. Sono lontani i tempi quando i Turchi assediavano le coste, quando si poteva almeno menar le mani. Non è rimasto nulla neanche una fortezza da difendere. Solo la noia di chi sa di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Solo i fantasmi che pian piano s’impossessano delle nostre vite, si mescolano alle nostre vicende personali. In un fine stagione triste, essi si confondono a noi.
Fra i tavolini vuoti e gli ombrelloni divelti Otello e Desdemona ancora s’inseguono in un eterno equivoco, sperando di sfuggire al loro triste destino.
I personaggi sono ridotti a poveri relitti, svuotati di ogni consapevolezza, rifiutano essi stessi di voler sapere o conoscere i motivi per i quali si trovano ad agire su un palcoscenico. La storia è lasciata alle spalle, è data per scontata come è giusto che sia visto che si ripete da cinquecento anni. Si parla dunque verso un pubblico dal quale si pretende che conosca a priori l’argomento di discussione, se non lo conosce tanto peggio per lui, ha avuto secoli per informarsi.
“Di fatto, non esiste una cosa come l’Amleto di Shakespeare. Se Amleto possiede qualcosa della
definitezza di un’opera d’arte, possiede anche tutta l’oscurità che appartiene alla vita. Vi sono tanti
Amleti quante malinconie.”
Oscar Wilde
Secondo passo della trilogia B-Tragedies nata come desiderio di commistione fra linguaggi diversissimi fra loro per altezza poetica nell’alternanza d’ispirazione e spazzatura. Teatro in bassa fedeltà, omaggio alla confusione tipica di chi è cresciuto fra i settanta e gli ottanta amando l’idea del “no future”. Tradimento di ogni tradizione
subita. Un altro Amleto, uno di meno direbbe Carmelo Bene, quasi esistesse un numero finito di possibilità d’interpretazione, ed ogni nuova messa in scena ne sottraesse per sempre una. Si arriverà dunque un giorno alla fine, al punto in cui il principe non rivivrà più, o meglio sarà stanco di essere incarnato, distorto, esaltato, smembrato. Amleto è l’attore, è il teatro. Immaginiamo che non abbia più voglia di recitarsi, immaginiamo che dimentichi il suo ruolo, tutto finirebbe.
Search and destroy inizia dalla fine, dando per scontati gli avvenimenti: che tanto sono sulla bocca di tutti; la storia: che di per se è poco più che una chiacchera; i personaggi: che verranno solo storpiati; Amleto è costretto ad andare avanti, a ricostruire la propria storia senza riuscirci. Altre sarebbero le attività a cui vorrebbe dedicarsi e non questa, il teatro, ormai divenuta inutile. Vorrebbe scappare o semplicemente starsene a casa, ma è costretto a ripetersi, è chiamato su palco ancora una volta, dal direttore di scena nei panni di uno spettro. La tragedia è tutta sulle spalle, fa tutto da solo, gli altri non si presentano in scena, li intravede dietro le quinte, li invita ad entrare, li interpreta lui stesso. Lui è artefice di tutto, il mondo è dentro di lui, fuori è la rappresentazione del dramma. Lui è “…il ghepardo che morde la strada col cuore gonfio di napalm…il bambino dimenticato dal mondo, quello che cerca e distrugge”.
Non si arriverà a niente, la vendetta del padre verrà chiesta a gran voce, più volte, ma nessuno verrà vendicato, poiché gli atti non cambiano il corso degli eventi, che scorrono e scorreranno sempre, indifferenti ad ogni nostra forma di agitazione.
B-tragedies trilogia Shakespeariana trash
primo passo: Macbeth
ADDA PASSA’ A NUTTATA è il primo passo di una trilogia shakespeariana trash. Che ha portato la compagnia ad affrontare tre grandi tragedie: Macbeth, Amleto e Otello.
Si tratta di un lavoro in bassa fedeltà, per fronteggiare la crisi. Alla base c’è una coppia, una particella familiare infeconda e infetta, un nucleo respingente che non contempla l’esistenza del mondo al di fuori delle proprie quattro mura di casa, che distrugge tutto ciò che osa interporsi fra loro e la ricerca della pace, della tranquillità. Due anziani coniugi chiusi in un luogo di detenzione, che non verrà mai svelato. Sappiamo che hanno commesso delle azioni atroci, delitti feroci, che hanno dimenticato e di cui ricordano solo brevi particolari nella loro memoria a sprazzi. Sono due tenere figure, nonostante i segni delle atrocità commesse, due amabili vecchietti che si tengono per mano dopo aver commesso una strage. Lo spettacolo gioca continuamente fra alto e basso, fra immaginario splatter e poesia.
L’antidoto scenico utilizzato contro la falsa cultura è la stupidità, appropriarsi del sacro santo diritto di essere stupidi infinitamente stupidi, calpestare i pregiudizi, il cattolico decoro, il falso rispetto verso il dolore degli altri, liberarsi insomma lasciarsi andare allo sproloquio, al dileggio.
Un teatro fatto per guadagnare il pane, che sembri fatto in fretta sfruttando un bagaglio di cose già fatte, di oggetti già usati, sul modello dei B-Movies con facili battute e ovvi doppi sensi per attirare il pubblico e il facile consenso. Il teatro sta in ogni disperato tentativo di dare senso alla vita, diceva Eduardo. Se la vita è ridotta a poca cosa allora anche piccole cose diventano teatro, le piccole tragedie appunto, le tragedie di serie B. Dentro questo lavoro entrano le nevrosi del quotidiano insieme agli insegnamenti dei grandi maestri. Troviamo le parole di Eduardo tutto il suo mondo “di sacrifici e di gelo”.
Incontriamo quei disgraziati che nelle cronache dell’italietta contemporanea ammiccano dietro lo schermo televisivo, la sfilza insomma dei morti ammazzati e relativi assassini, quasi sempre padri di famiglia, insospettabili vicini di casa che si accaniscono contro il sangue del proprio sangue o quello del loro prossimo dirimpetto. Entrano i personaggi di Shakespeare, immortali, che attraverso le loro parole, la loro realtà messa in scena ad opera d’arte, riescono a impressionarci sempre e a tal punto da farci spiattellare da soli i nostri crimini.
Con:
Luana Mulas (voce)
Antonio Baldinu (batteria)
Gianluca Dessì (modal guitar, bouzouki)
Musiche di:
Antonio Baldinu e Gianluca Dessì
Regia Luana Mulas
…forse la mia armatura non è poi così spessa…quel dannato calore arriva fin dove il cuore è più fine…”
Squarci… di un’anima che trasuda, scalpita, si dimena, urla vendetta, invoca misericordia dal fondo della caverna del proprio io, in cui non vi è gentilezza né calore.
… in un corpo che cede al ricatto della speranza, preso in ostaggio dalla vita che ormai è solo ricordo di ciò che era e ciò che è stato. Ciò che è perso è perduto.
… di un cuore selvaggio logorato dalla dannata fame d’amore, dall’eterna lotta per farsi amare, dal continuo bisogno di darsi, poco importa se ai porci.
… che sono fenditure dolorose di sangue, odio, pus, rancore, vomito, rabbia, amore. Sacrosanto Amore sul cui altare immolare sé stessi.
… che sono finestre aperte su sentimenti reconditi, torbidi, inconfessabili perché per amare bisogna prima poter sentire l’odio.
… di musiche che spargono sale sulle piaghe di sempre, che scavano, scavano perché la verità è in fondo a un pozzo.
Onde d’onda che sbatte, sbatte e picchia e inchioda alla croce.
Squarci nasce dalla volontà di fondere musica e testo in maniera teatrale, un connubio tra concerto, reading, spettacolo. Dalle note, da accordi e ritmi affiorano ricordi, emozioni, incontri, sogni, agonie, monologhi frammentari di una donna dalla platea della propria vita.
In una sottile alternanza tra vissuto e interpretato, protagonista è un’attrice che evoca e rievoca, spaziando nel teatro del proprio vissuto attraverso Laing, Catullo, Borges, Dickinson, Carnevali, Pavese.
Le musiche tessono un sottile filo che guida su e giù dal palcoscenico, avanti e indietro nella vita della protagonista in una trama talmente fitta che i due aspetti, quello scenico della finzione e quello reale si fondono.
L’epilogo degli undici squarci musicali è una chiara rilettura de L’attrice presa in prestito di Fabrice Melquiot:
… ci sono attrici portate per questo, che senza testo se la cavano benissimo… io mi […] mi hanno detto ti prendo in prestito, la gente ti ascolta, dici quello che vuoi […] tutti credono che le attrici si svuotino facilmente come i pesci […] in scena mi controllo talmente… insomma è un’altra cosa, non sono parole mie […] dico questo per riempire il silenzio […] non ho veramente niente da dire con le mie parole, non mi piace essere qui […] venite a vedermi recitare una sera, in scena non sono io, in scena è tutta un’altra cosa.
In un flusso di coscienza l’attrice interpreta sé stessa, perché il confine tra finzione e realtà è arbitrario. Il palcoscenico è in ogni dove e non possiamo più scendere da quelli che abbiamo calcato anche se solo per una volta
In collaborazione con Teatro di Buti e Pilar Ternera
Di e con: Marco Sanna, Francesco Cortoni, Claudio Alfaroli
Drammaturgia: Marco Sanna
Luci e Suoni: Giorgio De Santis
Costumi: Anna Ledda
Maschere e oggetti scenici: Massimo Casada – Rosella Ulleri
Organizzazione e ufficio stampa: Celeste Bellofiore
Foto di: Naima Savioli
E’ questa, una favola nera dove i buoni soccombono. La verità e la sua continua manipolazione è il cardine attorno a cui ruota tutta la vicenda. Chi dice la verità muore, è la regola del gioco a cui ci siamo pian piano abituati. I bugiardi hanno conquistato le strade. Sanno vendersi bene loro. Tanto è l’apparenza che conta e mai la sostanza. Que Pasa? Che succede? Questo è il nostro western. La terra che ci contendiamo ma che non ci apparterrà mai. Il sangue che sputiamo per cambiare le cose.
Al contrario di chi vuole la tradizione come espressione monolitica di un passato vero o presunto, nostalgia di cose che non tornano, la compagnia ritiene invece che la tradizione, così com’è nell’etimologia della parola, sia qualcosa che continuamente
cambia e si evolve in base ai tempi e ai passaggi generazionali. Lo spettacolo attraverso una serie di suggestioni sgretola la “forma commedia” da cui prende spunto, per calare la sua essenza in un tessuto e in un contesto contemporaneo.
Ecco che allora i testi originali di Farendi in Turritana si incrociano con Shakespeare, Harold Pinter, Giovanni Lindo Ferretti, Eduardo de Filippo, e con le canzoni della sceneggiata napoletana, sorella maggiore anche se assai più calata nel tessuto sociale che gli appartiene, della nostra commedia “Zappadorina”.
Ciò che lo spettatore trova sulla scena è un caleidoscopio d’immagini ove la storia originaria si è persa e i personaggi sembrano cercare ognuno un modo nuovo e differente di esistere. Tutto ciò che essi avrebbero voluto capovolgere, tutto un sistema di regole e contraddizioni li fagocita, li mastica e digerisce in quell’eterno teatrino della storia umana fatto di figliol prodighi, agnelli che tornano all’ovile, capelli tagliati, teste a posto e figli che prendono il posto dei padri. Il candeliere che a un certo punto dello spettacolo irrompe sulla scena, sta a simboleggiare l’impossibilità di liberarsi totalmente della propria storia, che quando sembra superata, chiusa dietro la porta, rientra dalla finestra.
La chiusa dello spettacolo è affidata alle parole che Amleto pronuncia agli attori di corte e tutta l’operazione nella sua interezza coglie la suggestione di quella famosa messinscena fatta dinanzi allo zio usurpatore del trono di Danimarca, infatti anche qui come allora facciamo si che “…i criminali difronte alla realtà posta in scena ad opera d’arte, rimangano talmente impressionati da
spiattellare da soli i loro crimini…”
by meridianozero·Commenti disabilitati su I can’t get no satisfaction
da
“Ricordi dal sottosuolo” di Fedor M. Dostoevskij
una produzione Malasemenza – Meridiano Zero – Pilar Ternera – Teatro di Buti
di e con
Claudio Alfaroli
Francesco Cortoni
Silvia Garbuggino
Marco Sanna
Francesca Ventriglia
regia
Gaetano Ventriglia
Lo spettacolo nasce come collaborazione fra due nuclei artistici, quelli delle compagnie Meridiano Zero di Sassari e Malasemenza di Livorno, viene coprodotto insieme all’associazione Pilar Ternera di Pisa e al Teatro di Buti (PI) dove ha debuttato nel Marzo 2007.
Ricordi dal sottosuolo è certo un libro difficile, lo stesso scrittore mentre lo scrive non sa come sarà accolto dal pubblico e fra l’altro la sua stesura fa parte di un periodo difficile e di forte cambiamento per la vita di Dostoevskji. Il testo costituisce uno spartiacque nell’opera dello scrittore russo, da quel momento in poi infatti tutti i personaggi delle sue opere avranno un loro sottosuolo, ed ad ognuno di loro, attraverso un cammino doloroso ma necessario, sarà data la possibilità di uscirne, verso qualcosa di diverso; alcuni ce la faranno, altri no.
Sottosuolo come luogo del risentimento, dell’inerzia, della malattia che si nutre compiaciuta di se stessa. Una trappola tutta mentale. Sottosuolo anche come luogo dove affermare la propria libertà, l’indipendenza del proprio volere, la propria irriducibilità al “due più due quattro”.
La prima parte dell’opera è un flusso di ricordi e insieme di coscienza. L’uomo del sottosuolo “spiega” mattone per mattone da cosa è costituito questo suo cantuccio e insieme enuncia le teorie che hanno fatto sì che la sua coscienza lo allontanasse dal mondo, dalla vita vera, e lo inducesse a chiudersi qui dentro, da vent’anni ormai.
Abbiamo voluto seguire, nella costruzione dello spettacolo, lo stesso movimento dell’opera, dunque questa prima, lunga parte è stata affrontata con tutto il pericolo che comportava, assumendosi la responsabilità del “dover spiegare”, maniacalmente, le teorie del sottosuolo: teorie e pensieri che sono di una logica implacabile (e amarissima) nella visione del mondo e della condizione umana, e al tempo stesso letteralmente ricoprono, e tentano penosamente di nascondere il non-coraggio-divivere. Questa mancanza di coraggio è il nocciolo del libro.
La vita prima della resa, se così vogliamo chiamare una lucida dipartita dal mondo e dalla sua medietà, è stata un dibattersi perpetuo fra il bene e il male, nel disperato tentativo di dare spessore alla vita di un insetto. Ma niente, neanche questo è riuscito a diventare, neanche un insetto. Tutto ciò è rievocato, dal nostro uomo, in questa prima parte, ove si dibatte fra il rapporto impossibile, seppur nella compassione, con il proprio servo, e i fantasmi, il loro carico di umiliazioni, che inesorabilmente riempiono “la scatola della memoria”. “Voi direte piuttosto che è volgare e ignobile metter tutto ciò in piazza, dopo tante ebbrezze e lacrime che io stesso ho confessate. Perché poi ignobile? Ma che davvero credete che debba vergognarmene, o che tutto questo sia molto più stupido d’una qualunque delle vostre cose, signori? Ma del resto, avete ragione; ciò è veramente volgare e ignobile. Il più ignobile di tutto, però, è che ora abbia cominciato a giustificarmi davanti a voi. E più ignobile ancora è quest’osservazione che sto facendo in quest’istante. Ma basta, comunque, chè non si finirebbe mai : si troverebbe ogni volta qualcosa di più ignobile ancora”[…]
Nello svolgersi fedele ma non cronologico dei fatti, l’uomo affronta tutti i “grandi” avvenimenti dell’esistenza descritti nell’opera, ora in maniera epica ora tragicomica. All’uomo del sottosuolo ripugna il mondo, con le sue leggi, comprese quelle oggettive, quelle cosmiche; gli altri (tutti) gli fanno schifo, con le loro idee utilitaristiche e la ricerca di un benessere squallido. “Se il mondo mi ripugna, se gli uomini mi fanno schifo,, io mi rifugio quaggiù nel mio cantuccio”.
Questo dice l’eroe di questi ricordi. Forse ancora non sa di essere un comico. Proprio l’aspetto del comico, là dove non dovrebbe esserci, là dove sembrerebbe alquanto inopportuno, è la chiave attorno a cui ruota la lettura che “I can’t get no satisfaction” dà dell’opera di Dostoevskji. Abbiamo voluto vederlo così, il nostro uomo, un comico di cattivo gusto, la cui unica materia di studio (di ricerca) è la propria inutile esistenza. “Voi certo, signori, pensate che io voglia farvi ridere? Vi sbagliate anche in questo. Io non sono affatto l’uomo allegro che vi sembro, o che forse vi sembro”.
Lo spettacolo è incentrato totalmente sulla forza degli attori, sul loro fuoco scenico e le personali caratteristiche. Il lavoro si sviluppa a partire da un tentativo sincero e consapevole di comprensione profonda del testo, di tutto quello che il testo lascia fuori, e che ne costituisce il significato, lasciando così ampi margini d’improvvisazione che permettono di trattare la materia letteraria come materia viva in continuo movimento, cangiante secondo umori e vibrazioni sera dopo sera, Nulla sulla scena. Nulla intorno. Solo cinque presenze, pochi oggetti sparsi.
Un fiume di parole che tentano di ricostruire una condizione, uno status: il sottosuolo. Ciò a cui ci si trova di fronte è un “esploso” che non segue perfettamente l’andamento dell’opera ma ne in-segue il senso, cercando di mantenerlo vivo passo dopo passo, attraverso parole proprie e una riscrittura scenica in cui ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è da ritenersi non puramente casuale ma vero, perché abbiamo compreso che il sottosuolo è una condizione non lontana, anzi, in qualche modo, appartenente a ognuno di noi.
Con: Marco Sanna ,Francesca Ventriglia, Luana Mulas.
Produzione Meridiano Zero 2006
Nasce come progetto performativo e di riflessione, sulla condizione dell’arte e il ruolo della poesia, sulla posizione dell’artista nella società e in particolare della figura dell’attore all’interno dell’attuale panorama culturale.
Il lavoro della compagnia è stato, sin dalla sua nascita, incentrato sulla figura dell’attore-autore, privilegiando scritture sceniche aperte e regie collettive, cercando di dare un’impronta sempre originale alle proprie creazioni, qualsiasi fosse il materiale portato in scena.
Un lavoro, insomma, che privilegiasse l’aspetto della ricerca costante, anche in scena dunque, lasciando ampi margini d’improvvisazione all’interno delle strutture sceniche affrontate. Un lavoro che ha sempre messo in primo piano i protagonisti principali del dramma, gli attori dunque, affidandogli, anche a costo di eccessiva frammentarietà, la drammaturgia e il compito della reviviscenza costante dello spettacolo.
Respirate…
“Noctis…”, in costante alternanza fra toni drammatico – grotteschi e momenti di “bassa-volgare” comicità, si apre con la figura del regista guru, il santone di provincia, che dopo aver frequentato due seminari, non si sa bene dove e con chi, riunisce attorno a se un gruppo di adepti per iniziarli alla nobile arte del teatro. Fra sermoni e laboratori (costosissimi) sul corpo come “metasignificante decontestualizzato”, il nostro, costruisce il suo castello di carte.
Egli, il demiurgo, che si è allontanato dai soliti circuiti per sua stessa scelta, e sempre per sua scelta vive isolato in qualche periferia fuori dalla grazia di dio (non gli si vada a dire che la sua condizione è dovuta al fatto che nessuno lo ha mai voluto, ne ha mai saputo della sua esistenza), è convinto che solo lui ha qualcosa di nuovo da dire al teatro, ma la sua novità è talmente oltre che è inutile cercare di esporla all’incompetente vecchiume teatrale.
La media delle sue produzioni è di una ogni quattro-cinque anni, la presentazione delle stesse è accompagnata da manifesti artistici incomprensibili e avvolta nel più oscuro mistero e segretezza.
Il demiurgo non è quasi mai solo, fa coppia fissa fin dalla notte dei secoli, dai tempi in cui: “tutti eravamo più liberi e si credeva in un mondo migliore”, con la sua compagna, unica sua musa ispiratrice e interprete fissa dei suoi drammi sedimentosi, anacronistici.
Niente e nessuno può sradicare il demiurgo dalla sua cantina-teatro iper-off, convincerlo a un’apertura verso l’esterno è impresa titanica, solo un evento straordinario, solo l’intervento della natura potrebbe, con la sua forza di distruzione, smuoverne la coscienza.
E la natura interviene…
Quando meno te lo aspetti, come pare a lei, con i mezzi che ritiene più opportuni, ed è la rovina.
Ogni certezza costruita nel tempo viene spazzata via, ognuno si ritrova a dover ricostruire le fondamenta delle proprie sicurezze, il proprio posto nella storia.
La natura e il suo carico di simboli, di visioni. I soldati imbottiti di crack, la banda che li segue e apre la strada agli ignavi, che a migliaia, nei loro splendidi costumi tradizionali, con la forza premonitrice di una piaga biblica, come uno sciame di locuste, divora tutto, e lascia, dietro la propria avanzata, il deserto.
“…l’onda si ritraeva, non potevamo sapere che ne sarebbe seguita un’altra a così breve distanza…” Non potevamo saperlo, neanche il demiurgo e la sua compagna, e come tutti vengono travolti, dispersi.
Al frastuono, segue un silenzio interminabile, poi lentamente si cerca di tornare alla normalità, lentamente le luci si riaccendono, anche sul palcoscenico.
Il demiurgo è di nuovo al suo posto, ma non è più lo stesso, è profondamente segnato nel corpo e nello spirito, parla con difficoltà una mescolanza di lingue e dialetti, a fatica tenta di tessere la trama di ciò che è stato, di ciò che potrà essere. Un vortice di parole, generato più dalla smorfia spastica del suo volto, che da un flusso cosciente di pensiero. Passando attraverso la lettura di poesie, scritte di suo pugno, durante un lungo, forzato, periodo di assenza dalle scene e da lui ritenute alte, arrivando a un delirio in cui i ricordi della catastrofe si confondono a suggestioni pornografiche, echi di canti folcloristici, il demiurgo si scompone, si contorce nel suo calvario.
Gli eventi lo hanno cambiato, nella sua nuova veste, il demiurgo affronta l’esterno,o meglio è l’esterno che irrompe, squassandolo, nel suo pensiero.
Come prima, seppure in un contesto tutto nuovo, egli ricostruisce attorno a se il proprio mondo (il demiurgo infatti, deve avere attorno a se, per essere tale, una stola di affezionati, di amici e parenti), come prima, la materia effimera di cui è costituito il suo microcosmo, appare inscalfibile. La natura è raro che si manifesti due volte di seguito. Cosa potrà dunque portare nuovi stravolgimenti nella sua vita?
La gloria, o meglio la promessa del suo avvento.
“La scena è fatta per gente leggera, gente easy gente voile nessuno ha voglia di pensare, si vogliono distrarre, vogliono divertirsi, truccarsi, dimagrirsi vogliono lasciare alle spalle i problemi.”
La sua compagna, la sua musa, dalla quale era stato diviso dalla forza della catastrofe, ma potrebbe essere da un diverbio artistico, o anche una (di lei) improvvisa voglia di qualcosa di meglio o semplicemente di diverso, torna per prospettargli qualcosa d’inatteso ma forse segretamente sperato.
La sua storia è quella di tanti, e tante. Notata da un fantomatico personaggio a caccia di “facce nuove”, gente normale, di cui il palinsesto televisivo è ghiotto (nel vero senso della parola, poichè li divora), ella è ora una celebrità del suo genere (il nulla) è auspica a tutti il raggiungimento di una felicità effimera, come quella che a “fatica” si è costruita.
Lei lo apostrofa di pedanteria, e lo esorta a cambiare vita, lo può aiutare dice, ora infatti ha delle conoscenze. Il demiurgo resiste, nega un proprio coinvolgimento in attività di così basso livello, ma poi cede davanti alla promessa di un ruolo cult, anche se di secondo piano, in una nota trasmissione.
Il finale, come da lieto fine, li vede ascendere nel firmamento delle star, voltando le spalle alla polvere, alle cantine, al pubblico di provincia, amici e parenti, si, davanti ai quali erano comunque qualcuno, per entrare nell’olimpo dorato dove paradossalmente, tutti sono nessuno.
Lo spettacolo è dedicato “alla memoria” di tutti quelli che negano il lato oscuro della propria esistenza, a monito di quelli che vivono credendosi esseri speciali, non banali esseri umani come tutti. A quelli che non prendono atto della propria meschinità, ma la esprimono nascostamente, nello svolgimento delle proprie azioni quotidiane.
Noctis
Noctis
Noctis
Noctis
Noctis
Noctis
Noctis
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