SPETTACOLO-CONCERTO DI CLAUDIA CRABUZZA E FRANCESCA VENTRIGLIA
CLAUDIA CRABUZZAvoce e guitalele FRANCESCA VENTRIGLIAinterprete e voce narrante
Testi di Violeta Parra e Nicanor Parra
Adattamenti canzoni Claudia Crabuzza
Traduzione poema Defensa de Violeta Milton Fernández
Produzione Meridiano Zero
Le più intense canzoni di Violeta prendono vita in un delicato spettacolo-concerto dedicato all’artista cilena, svelandosi grazie a nuovi adattamenti in italiano curati da Claudia Crabuzza che canta accompagnata dal guitalele, e alle performance di Francesca Ventriglia, che dà corpo alle visioni di una autrice e donna unica, madre di tutta la canzone latino americana.
Spinta dalla passione e dalla ricerca di autenticità, Violeta ha percorso l’intero Cile dissotterrando ritmi e temi della canzone popolare, ricostruendo una tradizione che si stava perdendo. Violeta ha vissuto con passione e con dolore. I suoi testi parlano della vita, dell’amore, della gioia, dell’ingiustizia e dei dimenticati, sono testi bellissimi e strazianti, che, escludendo la famosa Grazie alla vita interpretata da Gabriella Ferri, in Italia non avevano ancora avuto traduzione.
A fare da filo conduttore tra le canzoni e le rivendicazioni di Violeta, le parole della poesia di suo fratello, il grande poeta cileno Nicanor Parra, che scrisse Defensa de Violeta prima come elogio del suo infaticabile e non abbastanza riconosciuto lavoro di ricerca e di amore per il Cile, e poi come elegia in seguito alla morte tragica avvenuta a cinquant’anni nel 1967, quando aggiunse a quelle precedenti numerose altre strofe. La versione presentata nello spettacolo è del poeta e traduttore Milton Fernández.
In Difesa di Violeta, la Parra rivive con la sua rabbia e con la sua ironia, lo sguardo tagliente che ha condannato il potere e la Chiesa, che ha difeso chi non ha niente, dandogli per la prima volta voce nella Storia.
Claudia Crabuzza è di Alghero, ha viaggiato per un po’ tra Europa e Messico. Nel 2000 fonda i Chichimeca con Fabio Manconi e Andrea Lubino con cui ha pubblicato tre album per l’etichetta indipendente Tajrà. Ha collaborato come interprete e autrice con artisti come Tazenda, Pippo Pollina, Mirco Menna, Il Parto delle nuvole pesanti, Dr Boost e con la band messicana La Carlota. Com un soldat, il primo disco solista in catalano di Alghero, ha guadagnato la Targa Tenco 2016 per la miglior opera in dialetto e lingue minoritarie.
Francesca Ventriglia nasce a Foggia e si forma sin da bambina nella danza. Prosegue il suo percorso artistico diplomandosi all’accademia di belle arti di Bari e realizzando diverse mostre soprattutto in Puglia. Si dedica al teatro professionalmente dal 1999. Per diversi anni collabora con il Teatro di Buti con la direzione di Dario Marconcini, lavorando in diverse produzioni. Ha collaborato con Sardegna Teatro e lavora stabilmente con la compagnia Meridiano Zero come attrice protagonista e coautrice di tutte le produzioni.
Con:
Luana Mulas (voce)
Antonio Baldinu (batteria)
Gianluca Dessì (modal guitar, bouzouki)
Musiche di:
Antonio Baldinu e Gianluca Dessì
Regia Luana Mulas
…forse la mia armatura non è poi così spessa…quel dannato calore arriva fin dove il cuore è più fine…”
Squarci… di un’anima che trasuda, scalpita, si dimena, urla vendetta, invoca misericordia dal fondo della caverna del proprio io, in cui non vi è gentilezza né calore.
… in un corpo che cede al ricatto della speranza, preso in ostaggio dalla vita che ormai è solo ricordo di ciò che era e ciò che è stato. Ciò che è perso è perduto.
… di un cuore selvaggio logorato dalla dannata fame d’amore, dall’eterna lotta per farsi amare, dal continuo bisogno di darsi, poco importa se ai porci.
… che sono fenditure dolorose di sangue, odio, pus, rancore, vomito, rabbia, amore. Sacrosanto Amore sul cui altare immolare sé stessi.
… che sono finestre aperte su sentimenti reconditi, torbidi, inconfessabili perché per amare bisogna prima poter sentire l’odio.
… di musiche che spargono sale sulle piaghe di sempre, che scavano, scavano perché la verità è in fondo a un pozzo.
Onde d’onda che sbatte, sbatte e picchia e inchioda alla croce.
Squarci nasce dalla volontà di fondere musica e testo in maniera teatrale, un connubio tra concerto, reading, spettacolo. Dalle note, da accordi e ritmi affiorano ricordi, emozioni, incontri, sogni, agonie, monologhi frammentari di una donna dalla platea della propria vita.
In una sottile alternanza tra vissuto e interpretato, protagonista è un’attrice che evoca e rievoca, spaziando nel teatro del proprio vissuto attraverso Laing, Catullo, Borges, Dickinson, Carnevali, Pavese.
Le musiche tessono un sottile filo che guida su e giù dal palcoscenico, avanti e indietro nella vita della protagonista in una trama talmente fitta che i due aspetti, quello scenico della finzione e quello reale si fondono.
L’epilogo degli undici squarci musicali è una chiara rilettura de L’attrice presa in prestito di Fabrice Melquiot:
… ci sono attrici portate per questo, che senza testo se la cavano benissimo… io mi […] mi hanno detto ti prendo in prestito, la gente ti ascolta, dici quello che vuoi […] tutti credono che le attrici si svuotino facilmente come i pesci […] in scena mi controllo talmente… insomma è un’altra cosa, non sono parole mie […] dico questo per riempire il silenzio […] non ho veramente niente da dire con le mie parole, non mi piace essere qui […] venite a vedermi recitare una sera, in scena non sono io, in scena è tutta un’altra cosa.
In un flusso di coscienza l’attrice interpreta sé stessa, perché il confine tra finzione e realtà è arbitrario. Il palcoscenico è in ogni dove e non possiamo più scendere da quelli che abbiamo calcato anche se solo per una volta
In collaborazione con Teatro di Buti e Pilar Ternera
Di e con: Marco Sanna, Francesco Cortoni, Claudio Alfaroli
Drammaturgia: Marco Sanna
Luci e Suoni: Giorgio De Santis
Costumi: Anna Ledda
Maschere e oggetti scenici: Massimo Casada – Rosella Ulleri
Organizzazione e ufficio stampa: Celeste Bellofiore
Foto di: Naima Savioli
E’ questa, una favola nera dove i buoni soccombono. La verità e la sua continua manipolazione è il cardine attorno a cui ruota tutta la vicenda. Chi dice la verità muore, è la regola del gioco a cui ci siamo pian piano abituati. I bugiardi hanno conquistato le strade. Sanno vendersi bene loro. Tanto è l’apparenza che conta e mai la sostanza. Que Pasa? Che succede? Questo è il nostro western. La terra che ci contendiamo ma che non ci apparterrà mai. Il sangue che sputiamo per cambiare le cose.
Al contrario di chi vuole la tradizione come espressione monolitica di un passato vero o presunto, nostalgia di cose che non tornano, la compagnia ritiene invece che la tradizione, così com’è nell’etimologia della parola, sia qualcosa che continuamente
cambia e si evolve in base ai tempi e ai passaggi generazionali. Lo spettacolo attraverso una serie di suggestioni sgretola la “forma commedia” da cui prende spunto, per calare la sua essenza in un tessuto e in un contesto contemporaneo.
Ecco che allora i testi originali di Farendi in Turritana si incrociano con Shakespeare, Harold Pinter, Giovanni Lindo Ferretti, Eduardo de Filippo, e con le canzoni della sceneggiata napoletana, sorella maggiore anche se assai più calata nel tessuto sociale che gli appartiene, della nostra commedia “Zappadorina”.
Ciò che lo spettatore trova sulla scena è un caleidoscopio d’immagini ove la storia originaria si è persa e i personaggi sembrano cercare ognuno un modo nuovo e differente di esistere. Tutto ciò che essi avrebbero voluto capovolgere, tutto un sistema di regole e contraddizioni li fagocita, li mastica e digerisce in quell’eterno teatrino della storia umana fatto di figliol prodighi, agnelli che tornano all’ovile, capelli tagliati, teste a posto e figli che prendono il posto dei padri. Il candeliere che a un certo punto dello spettacolo irrompe sulla scena, sta a simboleggiare l’impossibilità di liberarsi totalmente della propria storia, che quando sembra superata, chiusa dietro la porta, rientra dalla finestra.
La chiusa dello spettacolo è affidata alle parole che Amleto pronuncia agli attori di corte e tutta l’operazione nella sua interezza coglie la suggestione di quella famosa messinscena fatta dinanzi allo zio usurpatore del trono di Danimarca, infatti anche qui come allora facciamo si che “…i criminali difronte alla realtà posta in scena ad opera d’arte, rimangano talmente impressionati da
spiattellare da soli i loro crimini…”
by meridianozero·Commenti disabilitati su I can’t get no satisfaction
da
“Ricordi dal sottosuolo” di Fedor M. Dostoevskij
una produzione Malasemenza – Meridiano Zero – Pilar Ternera – Teatro di Buti
di e con
Claudio Alfaroli
Francesco Cortoni
Silvia Garbuggino
Marco Sanna
Francesca Ventriglia
regia
Gaetano Ventriglia
Lo spettacolo nasce come collaborazione fra due nuclei artistici, quelli delle compagnie Meridiano Zero di Sassari e Malasemenza di Livorno, viene coprodotto insieme all’associazione Pilar Ternera di Pisa e al Teatro di Buti (PI) dove ha debuttato nel Marzo 2007.
Ricordi dal sottosuolo è certo un libro difficile, lo stesso scrittore mentre lo scrive non sa come sarà accolto dal pubblico e fra l’altro la sua stesura fa parte di un periodo difficile e di forte cambiamento per la vita di Dostoevskji. Il testo costituisce uno spartiacque nell’opera dello scrittore russo, da quel momento in poi infatti tutti i personaggi delle sue opere avranno un loro sottosuolo, ed ad ognuno di loro, attraverso un cammino doloroso ma necessario, sarà data la possibilità di uscirne, verso qualcosa di diverso; alcuni ce la faranno, altri no.
Sottosuolo come luogo del risentimento, dell’inerzia, della malattia che si nutre compiaciuta di se stessa. Una trappola tutta mentale. Sottosuolo anche come luogo dove affermare la propria libertà, l’indipendenza del proprio volere, la propria irriducibilità al “due più due quattro”.
La prima parte dell’opera è un flusso di ricordi e insieme di coscienza. L’uomo del sottosuolo “spiega” mattone per mattone da cosa è costituito questo suo cantuccio e insieme enuncia le teorie che hanno fatto sì che la sua coscienza lo allontanasse dal mondo, dalla vita vera, e lo inducesse a chiudersi qui dentro, da vent’anni ormai.
Abbiamo voluto seguire, nella costruzione dello spettacolo, lo stesso movimento dell’opera, dunque questa prima, lunga parte è stata affrontata con tutto il pericolo che comportava, assumendosi la responsabilità del “dover spiegare”, maniacalmente, le teorie del sottosuolo: teorie e pensieri che sono di una logica implacabile (e amarissima) nella visione del mondo e della condizione umana, e al tempo stesso letteralmente ricoprono, e tentano penosamente di nascondere il non-coraggio-divivere. Questa mancanza di coraggio è il nocciolo del libro.
La vita prima della resa, se così vogliamo chiamare una lucida dipartita dal mondo e dalla sua medietà, è stata un dibattersi perpetuo fra il bene e il male, nel disperato tentativo di dare spessore alla vita di un insetto. Ma niente, neanche questo è riuscito a diventare, neanche un insetto. Tutto ciò è rievocato, dal nostro uomo, in questa prima parte, ove si dibatte fra il rapporto impossibile, seppur nella compassione, con il proprio servo, e i fantasmi, il loro carico di umiliazioni, che inesorabilmente riempiono “la scatola della memoria”. “Voi direte piuttosto che è volgare e ignobile metter tutto ciò in piazza, dopo tante ebbrezze e lacrime che io stesso ho confessate. Perché poi ignobile? Ma che davvero credete che debba vergognarmene, o che tutto questo sia molto più stupido d’una qualunque delle vostre cose, signori? Ma del resto, avete ragione; ciò è veramente volgare e ignobile. Il più ignobile di tutto, però, è che ora abbia cominciato a giustificarmi davanti a voi. E più ignobile ancora è quest’osservazione che sto facendo in quest’istante. Ma basta, comunque, chè non si finirebbe mai : si troverebbe ogni volta qualcosa di più ignobile ancora”[…]
Nello svolgersi fedele ma non cronologico dei fatti, l’uomo affronta tutti i “grandi” avvenimenti dell’esistenza descritti nell’opera, ora in maniera epica ora tragicomica. All’uomo del sottosuolo ripugna il mondo, con le sue leggi, comprese quelle oggettive, quelle cosmiche; gli altri (tutti) gli fanno schifo, con le loro idee utilitaristiche e la ricerca di un benessere squallido. “Se il mondo mi ripugna, se gli uomini mi fanno schifo,, io mi rifugio quaggiù nel mio cantuccio”.
Questo dice l’eroe di questi ricordi. Forse ancora non sa di essere un comico. Proprio l’aspetto del comico, là dove non dovrebbe esserci, là dove sembrerebbe alquanto inopportuno, è la chiave attorno a cui ruota la lettura che “I can’t get no satisfaction” dà dell’opera di Dostoevskji. Abbiamo voluto vederlo così, il nostro uomo, un comico di cattivo gusto, la cui unica materia di studio (di ricerca) è la propria inutile esistenza. “Voi certo, signori, pensate che io voglia farvi ridere? Vi sbagliate anche in questo. Io non sono affatto l’uomo allegro che vi sembro, o che forse vi sembro”.
Lo spettacolo è incentrato totalmente sulla forza degli attori, sul loro fuoco scenico e le personali caratteristiche. Il lavoro si sviluppa a partire da un tentativo sincero e consapevole di comprensione profonda del testo, di tutto quello che il testo lascia fuori, e che ne costituisce il significato, lasciando così ampi margini d’improvvisazione che permettono di trattare la materia letteraria come materia viva in continuo movimento, cangiante secondo umori e vibrazioni sera dopo sera, Nulla sulla scena. Nulla intorno. Solo cinque presenze, pochi oggetti sparsi.
Un fiume di parole che tentano di ricostruire una condizione, uno status: il sottosuolo. Ciò a cui ci si trova di fronte è un “esploso” che non segue perfettamente l’andamento dell’opera ma ne in-segue il senso, cercando di mantenerlo vivo passo dopo passo, attraverso parole proprie e una riscrittura scenica in cui ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è da ritenersi non puramente casuale ma vero, perché abbiamo compreso che il sottosuolo è una condizione non lontana, anzi, in qualche modo, appartenente a ognuno di noi.
Con: Marco Sanna ,Francesca Ventriglia, Luana Mulas.
Produzione Meridiano Zero 2006
Nasce come progetto performativo e di riflessione, sulla condizione dell’arte e il ruolo della poesia, sulla posizione dell’artista nella società e in particolare della figura dell’attore all’interno dell’attuale panorama culturale.
Il lavoro della compagnia è stato, sin dalla sua nascita, incentrato sulla figura dell’attore-autore, privilegiando scritture sceniche aperte e regie collettive, cercando di dare un’impronta sempre originale alle proprie creazioni, qualsiasi fosse il materiale portato in scena.
Un lavoro, insomma, che privilegiasse l’aspetto della ricerca costante, anche in scena dunque, lasciando ampi margini d’improvvisazione all’interno delle strutture sceniche affrontate. Un lavoro che ha sempre messo in primo piano i protagonisti principali del dramma, gli attori dunque, affidandogli, anche a costo di eccessiva frammentarietà, la drammaturgia e il compito della reviviscenza costante dello spettacolo.
Respirate…
“Noctis…”, in costante alternanza fra toni drammatico – grotteschi e momenti di “bassa-volgare” comicità, si apre con la figura del regista guru, il santone di provincia, che dopo aver frequentato due seminari, non si sa bene dove e con chi, riunisce attorno a se un gruppo di adepti per iniziarli alla nobile arte del teatro. Fra sermoni e laboratori (costosissimi) sul corpo come “metasignificante decontestualizzato”, il nostro, costruisce il suo castello di carte.
Egli, il demiurgo, che si è allontanato dai soliti circuiti per sua stessa scelta, e sempre per sua scelta vive isolato in qualche periferia fuori dalla grazia di dio (non gli si vada a dire che la sua condizione è dovuta al fatto che nessuno lo ha mai voluto, ne ha mai saputo della sua esistenza), è convinto che solo lui ha qualcosa di nuovo da dire al teatro, ma la sua novità è talmente oltre che è inutile cercare di esporla all’incompetente vecchiume teatrale.
La media delle sue produzioni è di una ogni quattro-cinque anni, la presentazione delle stesse è accompagnata da manifesti artistici incomprensibili e avvolta nel più oscuro mistero e segretezza.
Il demiurgo non è quasi mai solo, fa coppia fissa fin dalla notte dei secoli, dai tempi in cui: “tutti eravamo più liberi e si credeva in un mondo migliore”, con la sua compagna, unica sua musa ispiratrice e interprete fissa dei suoi drammi sedimentosi, anacronistici.
Niente e nessuno può sradicare il demiurgo dalla sua cantina-teatro iper-off, convincerlo a un’apertura verso l’esterno è impresa titanica, solo un evento straordinario, solo l’intervento della natura potrebbe, con la sua forza di distruzione, smuoverne la coscienza.
E la natura interviene…
Quando meno te lo aspetti, come pare a lei, con i mezzi che ritiene più opportuni, ed è la rovina.
Ogni certezza costruita nel tempo viene spazzata via, ognuno si ritrova a dover ricostruire le fondamenta delle proprie sicurezze, il proprio posto nella storia.
La natura e il suo carico di simboli, di visioni. I soldati imbottiti di crack, la banda che li segue e apre la strada agli ignavi, che a migliaia, nei loro splendidi costumi tradizionali, con la forza premonitrice di una piaga biblica, come uno sciame di locuste, divora tutto, e lascia, dietro la propria avanzata, il deserto.
“…l’onda si ritraeva, non potevamo sapere che ne sarebbe seguita un’altra a così breve distanza…” Non potevamo saperlo, neanche il demiurgo e la sua compagna, e come tutti vengono travolti, dispersi.
Al frastuono, segue un silenzio interminabile, poi lentamente si cerca di tornare alla normalità, lentamente le luci si riaccendono, anche sul palcoscenico.
Il demiurgo è di nuovo al suo posto, ma non è più lo stesso, è profondamente segnato nel corpo e nello spirito, parla con difficoltà una mescolanza di lingue e dialetti, a fatica tenta di tessere la trama di ciò che è stato, di ciò che potrà essere. Un vortice di parole, generato più dalla smorfia spastica del suo volto, che da un flusso cosciente di pensiero. Passando attraverso la lettura di poesie, scritte di suo pugno, durante un lungo, forzato, periodo di assenza dalle scene e da lui ritenute alte, arrivando a un delirio in cui i ricordi della catastrofe si confondono a suggestioni pornografiche, echi di canti folcloristici, il demiurgo si scompone, si contorce nel suo calvario.
Gli eventi lo hanno cambiato, nella sua nuova veste, il demiurgo affronta l’esterno,o meglio è l’esterno che irrompe, squassandolo, nel suo pensiero.
Come prima, seppure in un contesto tutto nuovo, egli ricostruisce attorno a se il proprio mondo (il demiurgo infatti, deve avere attorno a se, per essere tale, una stola di affezionati, di amici e parenti), come prima, la materia effimera di cui è costituito il suo microcosmo, appare inscalfibile. La natura è raro che si manifesti due volte di seguito. Cosa potrà dunque portare nuovi stravolgimenti nella sua vita?
La gloria, o meglio la promessa del suo avvento.
“La scena è fatta per gente leggera, gente easy gente voile nessuno ha voglia di pensare, si vogliono distrarre, vogliono divertirsi, truccarsi, dimagrirsi vogliono lasciare alle spalle i problemi.”
La sua compagna, la sua musa, dalla quale era stato diviso dalla forza della catastrofe, ma potrebbe essere da un diverbio artistico, o anche una (di lei) improvvisa voglia di qualcosa di meglio o semplicemente di diverso, torna per prospettargli qualcosa d’inatteso ma forse segretamente sperato.
La sua storia è quella di tanti, e tante. Notata da un fantomatico personaggio a caccia di “facce nuove”, gente normale, di cui il palinsesto televisivo è ghiotto (nel vero senso della parola, poichè li divora), ella è ora una celebrità del suo genere (il nulla) è auspica a tutti il raggiungimento di una felicità effimera, come quella che a “fatica” si è costruita.
Lei lo apostrofa di pedanteria, e lo esorta a cambiare vita, lo può aiutare dice, ora infatti ha delle conoscenze. Il demiurgo resiste, nega un proprio coinvolgimento in attività di così basso livello, ma poi cede davanti alla promessa di un ruolo cult, anche se di secondo piano, in una nota trasmissione.
Il finale, come da lieto fine, li vede ascendere nel firmamento delle star, voltando le spalle alla polvere, alle cantine, al pubblico di provincia, amici e parenti, si, davanti ai quali erano comunque qualcuno, per entrare nell’olimpo dorato dove paradossalmente, tutti sono nessuno.
Lo spettacolo è dedicato “alla memoria” di tutti quelli che negano il lato oscuro della propria esistenza, a monito di quelli che vivono credendosi esseri speciali, non banali esseri umani come tutti. A quelli che non prendono atto della propria meschinità, ma la esprimono nascostamente, nello svolgimento delle proprie azioni quotidiane.
Produzione Lady Godiva Teatro, Tra cielo e terra Festival, Meridiano Zero.
Parole.Parole. Parole.
Un vortice le prende, le incatena, ne costruisce storie di grande umanità e le distrugge, annientando sogni, speranze, illusioni.
Che resta?
Il miracolo, lindo casto e puro. Il miracolo dell´oro e della merda. E un odore, nell´aria, di sangue umano.
Tutto il resto va a farsi fottere.
Scendono nell´arena i gladiatori. Si mostrano nelle loro fattezze: uomini che non sanno più combattere, ma che si ritrovano, a mò di condanna, a doverlo fare e rifare, ogni giorno, ogni sera.
Sono tre attori, costretti in sontuosi abiti elisabettiani, a scendere nell´arena per lo scontro. Chiusi in pesanti gabbie metalliche, trascorrono la via crucis che li separa al termine della messinscena raccontando le vicende di tre anziane signore.
Recitano a fare le signore, a immedesimarsi nei loro drammi quotidiani e nei loro piccoli sogni. Una richiesta di esistenza, un briciolo di luce e felicità dentro a storie di vite annientate dalla tristezza del quotidiano e dalle brutture dell´ipocrisia. Tre uomini a contendersi tre donne, persone e personaggi a rincorrersi accompagnati da un karaoke da pianobar.
Su quelle note, squilli di tromba, l´arena si apre e dalle gabbie escono le dame. Comincia lo scontro.
Parole. Parole. Parole.
Dal basso.
E´ un dramma che parte dal basso, da quello strato di quotidianità che è squallore, mediocrità , ipocrisia. Su questo livello si pongono Erna, Grete e Maria, le protagoniste della vicenda. I loro racconti scivolano su questo piano, invischiandosi vertiginosamente fino a sollevarsi in drammi più tremendi e sanguinari. E´ come se le loro parole, lentamente, levitassero dalla melma ma si trascinassero i filamenti della melma stessa. Quella sollevazione, quel tentativo di fuggire o almeno allontanarsi dalla terra-palude, è rappresentata dai loro sogni.
Saranno però gli stessi sogni, dopo essere stati dettagliatamente descritti, a ricordarsi di quei filamenti, di quello strascico melmoso che li continua a tenere inchiodati alla palude.
E i sogni stessi ripiomberanno ferocemente a terra, catapultati nuovamente nel quotidiano.
Regine reiette, dame senza regno, signore svuotate, le tre protagoniste investono i racconti delle loro vite reiette, senza regno, svuotate…lasciandoci alla fine una recita da rifare ogni sera.
Dalle gabbie aperte nell´arena-palcoscenico fuggiranno i corpi degli attori, resterà il karaoke-pianobar e gli involucri dell’esistenza delle tre signore: i loro bellissimi abiti elisabettiani, i loro bellissimi costumi da
presidentesse.
Da indossare, la sera successiva, a condanna della vita.
Eugenio Sideri
” Le presidentesse” è un progetto coltivato e portato avanti con grandi sacrifici e amore. E´ un progetto nato dall´incontro di persone che , pur mantenendo le proprie autonome progettualità artistiche, hanno deciso di condividere un percorso con decisione e forza. Un percorso di confronto e crescita, di messa in discussione e di necessità profonda.
“Le presidentesse” non ha lucrosi finanziamenti, non ha vantaggiose produzioni: c´è una necessità sanguigna ed epidermica di far esistere questo testo nella sua attualissima e ferocissima critica sociale. Un sasso nello stagno, forse, ma anche un profondo bisogno di lanciare quel sasso, con tutte le proprie
forze.
Per sentire ancora una volta quella vita vera che passa nel fare il teatro.
Tutto il resto è spettacolo.
Produzione Meridiano Zero
In collaborazione con Armunia festival costa degli etruschi
Ideazione e regia Marco Sanna
Con: Marco Boscani, Alessandro Doro, Luana Mulas, Marco Sanna, Nadia Scanu, Francesca Ventriglia. Tecnico luci e audio: Massimo Casada.
Il progetto si sviluppa e centra la sua attenzione su alcune situazioni di un rapporto di coppia spinto alle estreme conseguenze.
Una riflessione sul significato di tragedia quotidiana, in tutti i suoi aspetti macro e microscopici, dalle grandi tragedie umane alle piccole tragedie quotidiane tra le quattro mura domestiche, filtrando tutto attraverso i dialoghi e i rapporti dell’uomo comune.
Macbeth è un pretesto per parlare dell’orrore, partendo dalle relazioni intrinseche a un nucleo sociale ridotto ai minimi termini: la coppia. Un incedere di amore, morte e apatia quotidiana che disegna due personaggi chiave della tragedia Shakespeariana.
La coppia come inizio e fine di tutto, luogo dell’umano da cui tutto ha origine e in cui tutto torna a morire, per abitudine, a volte per disprezzo.
Quante volte abbiamo aperto la porta, per mostrare l’interno, l’interno personale, costruito con pazienza, arredato con cura e sacrificio (così è la casa del padre e della madre). Quante volte questo interno è stato devastato, dopo un primo attimo di sincera meraviglia, solo per il gusto di farlo combaciare a un altro già conosciuto, dunque più sicuro.
Noi come camere ammobiliate, noi come case date in affitto, noi che rinunciamo al nostro futuro astratto per tuffarci in uno concreto, dove sappiamo con chi condividere i passi per le strade semideserte, i percorsi che erano fino ad allora solitari e pensierosi, la prima visione del mattino, l’ultima della sera.
Noi che non siamo più invitati o ospiti, non più uno che va e l’altro che aspetta, ma entrambi senza possibilità di scelta, dentro una casa che non apparteneva a nessuno e che adesso è di tutti e due, con un cuscino in comune per il quale litighiamo e dal quale, come malati ormai al termine della speranza, finiamo per avere una visione del mondo.
La solitudine di essere in due, molto peggio che soli, la solitudine intrinseca al sentimento nella sua inesplicabilità.
Cosa significa e quanto conta il «mistero» di due persone una di fronte all’altra, e quando questo smette di essere, cosa rimane al suo posto?
Un abisso di silenzio, sul fondo del quale s’insinua la convinzione o la superstizione che non esiste ciò che non si dice. Ed è vero che solo ciò che non si dice e non si esprime non può essere tradotto.
Silenzi da cui non s’impara nulla, silenzi privi di concentrazione, dove la mente è impegnata con le note di una canzone stupida sentita alla radio.
La casa è il luogo dove le cose si celano, gli affetti si fanno e si disfano. La casa si dice che abbia memoria, e la casa ci racconta. Racconta noi, le nostre abitudini, parlando attraverso i nostri odori, la disposizione degli oggetti, certi angoli di dimenticanza sfuggiti al vortice delle pulizie settimanali. E a noi racconta, la casa, con i suoi strati di pittura alle pareti, a noi che varchiamo la soglia e ci aggiriamo nelle stanze, pubblico indeciso se prendere o non prendere in affitto al costo di un biglietto, almeno per una sera, questi sentimenti così vicini eppure così spesso celati.
Quattro pareti dunque, la quarta abbattuta, in senso architettonico, reale, spaccati di vita, come in certi palazzi a Sarajevo, li abbiamo visti alla televisione.
Abitiamo questa casa, uno dopo l’altro, Macbeth, primo proprietario, ci contiene e ci conosce, come gli antichi contengono i contemporanei, come il teatro contiene la vita.
Produzione Meridiano Zero
In collaborazione con: La Luna Antica e Link – Theatre en vol
Regia: Marco Sanna.
Con: Gian Giorgio Cadoni, Sarah Canu, Luigi Manca, Luana Mulas, Marco Sanna, Franca Spanu.
Luci: Massimo Casada.
Le situazioni in cui non vorremmo mai trovarci, le indecisioni che lasciano passare la vita dietro i vetri, il dolore che pare sempre degli altri, oppure così nostro da chiudere la porta in faccia a tutti, gli sbagli commessi, quelli da compiere, bere con gli amici,fumare, attendere…tutto.
Ogni volta che nasce uno spettacolo, nasce qualcosa di te che non conoscevi, o che avevi dimenticato in qualche angolo. Si, ogni cosa è dentro di noi, non c’è da sorprendersi nel scoprirsi assassini, guardoni, cinici, innamorati, stupidi, bisognosi d’affetto…tutto.
Le notti si susseguono, e ogni notte una goccia scava un po’ la pietra del viso, apre una ruga nuova come una riga aggiunta al testo, un riflesso nuovo nello specchio; anche questo è il senso del teatro: testimoniare il proprio tempo, i giorni che passano, i nostri giorni.
Ogni linguaggio è lecito, ogni fine raggiungibile, ogni strada percorribile, ogni storia è la nostra storia, e da questa disponibilità a farsi attraversare, a farsi tramite, nasce la poesia, piccola o grande non importa.
La poesia è tutto, la poesia non so a cosa serve ma so che è importante.
Questo lavoro, narra attraverso quadri diversi, storie unite da fili sottilissimi e misteriosi, narra dello scarto tra il pensiero e l’azione, di repentini cambi di direzione e di umore, di esistenze sull’orlo, in bilico fra un futuro astratto e uno concreto nel quale sono impigliate.
Narra la prima notte di nozze, da dove simbolicamente ha inizio l’ansia di un’umanità non ancora venuta al mondo, figlia di genitori che si scoprono troppo in confidenza e quindi per assurdo sconosciuti l’uno all’altra.
Narra di raptus improvvisi, omicidi compiuti per pura fatalità, altri premeditati per amore, persone in punta dei piedi leggere più dell’aria che le contiene, convulse in rapporto a ciò che le circonda: affetti, parole, suppellettili…tutto.
E’ l’ultima notte dell’anno, vento sulle finestre, neve fuori dalla porta, è come se tutti abbiano sentore che la loro vita cambierà presto. Tutti sono riuniti insieme sotto lo stesso tetto, ma nessuno sa ciò che succede nella stanza a fianco, il suono della musica copre ogni cosa, il conto alla rovescia parte e si ferma a uno, lo zero non arriva mai, la festa non può scoppiare.
La violenza, al centro di vicende surreali e tragicomiche è quella delle emozioni, i personaggi, cercano una salvezza per l’anima e trovano però il degrado dei corpi.
Riflette, questo lavoro, uno stato d’attesa perenne, vive di ripetizioni, di moduli ridondanti. Nella fase di ricerca in cui ancora si trova, ripetersi è lecito, per poter creare un universo poetico sconosciuto, che sia frutto dell’incontro fra il cuore e la bellezza di chi vi prende parte.
Ripetersi è lecito poiché non sempre ci si capisce subito, spesso bisogna appunto avere la pazienza di ripetere e la pazienza di riascoltare.
Questo lavoro è dedicato a Raymond Carver, Sarah Kane, Werner Schwab, a tutti quelli che hanno preso decisioni vitali nell’arco di una frazione di secondo, a quelli che si sono giocati la vita e il cervello nell’eccesso: d’amore, d’attenzione, di sagacia, di veggenza…di tutto.
Questi frammenti, tutti insieme, formano un intero che è frammento esso stesso di ciò che ci gira per la testa, di ciò che avremmo voluto fare e non abbiamo avuto il tempo di fare. Stasera ve le regaliamo queste esistenze da quattro soldi, domani se volete possiamo trovarci e scoprire quella ruga in più spuntata fuori stanotte.
by Meridianozero Teatro·Commenti disabilitati su La complessa personalità del coniglio
Produzione Meridiano Zero – Mutamento Zona Castalia
di e con Marco Sanna e Francesca Ventriglia
Per tentare di capire:
il desiderio prima di ogni altra cosa.
Il desiderio ha trascinato con se l’amore, una coppia, una coppia d’amore, la stanza, dove vivono tutte le coppie, luoghi senza pericolo di bellezza, luoghi dove tutto succede, questo succede.
Per tentare di mettere in pratica:
ci siamo costruiti un recinto di pensiero.
Pensare l’amore in simbiosi con l’ossessione. Pensare soltanto l’amore, ossessivamente. Volere una persona soltanto, una persona alla volta. Desiderare certe cose, quella cosa, soltanto. Vivere un presente ossessivo. Attendere un futuro migliore, dove tutto ritornerà come prima. Riprovarci ancora. Guardare al passato e ogni cosa perduta, vederla prima dell’inizio di tutto.
Un recinto d’ossessione, nella stanza si sta, vivi o morti. Cessa di esistere il tempo, le cose ritornano, se ne vanno, essi, semplicemente, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.
Un intatto presente, un fossato di silenzio che circonda la casa.
Il disperato (amorevole dunque) tentativo di comprensione, di ricerca delle ragioni, di avvicinamento l’uno al mistero dell’altro, che è anche un tentativo per dimenticar se stessi, e infine il complesso non capire……come un corridoio stretto e lungo, senza lucernari, senza porte, che non conduce in alcun luogo.
E ad un tratto tutto si rivela,con la forza dirompente di un esplosione, con l’ineluttabilità di una catastrofe: la tragedia arriva nella nostra (nella loro) vita per dargli un senso.
Nel tentativo di cambiare prospettiva:
Il sogno diviene incubo di normalità.
Quando ci destiamo da questo brutto sogno, brutto e pauroso, reso accettabile solo dall’eco di canzoni d’amore , rumori di tristezza, non ci siamo più: tutte le nostre stanze parlano della nostra partenza.
Quando le cose finiscono, è qui, non un attimo prima, che la tragedia s’impone su tutto, non c’è più spazio per nessun’ossessione, quando si muore, quando muoiono gli altri, quando ci si accorge di essere morti (già), si vorrebbe che partisse una canzone (la nostra) ad abbracciare la potenza del dolore.
Il senso di perdita porta in se, come dono, un’assassina lucidità, una coperta da gettare sul nulla per provare a dargli una forma.
Ma se ogni giorno guardassimo nello specchio la morte all’opera, allora ci si potrebbe fare l’abitudine, si potrebbe perfino annoiarsi davanti ad essa e cullare il nostro suicidio come un bimbo, aspettando il giorno in cui verrà natale e dare una festa privata in cucina, senza invitati se non la nostra stessa ombra. Si potrebbe ballare al ritmo del nostro sistema nervoso. Così belli, finalmente,così umani: solo piscio, merda, puzza e voglia di andarsene via.
Ma non si va, si resta.
Nel fondo della caverna di Platone dove le cose non si svelano mai per quello che sono, la realtà è continuamente negata o travisata e non è possibile vedere se non l’ombra del reale, che è nel fondo della nostra mente e si estende, vaga e indefinibile: una minaccia per la pace, tutta la pace.
Tutto sembra soccombere, tutto ruota intorno alla fine di ogni possibile percorso, ma ci faremo forieri a nostro modo di speranza: come? Rifiutandoci di chiudere il conflitto con un opportuno finale, felice o infelice.
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